La produzione globale di abbigliamento supera oggi i 100 miliardi di capi l’anno. Un quantitativo che allarma non solo per l’aspetto che concerne l’atto produttivo, ma anche quello ‘distruttivo’, il quale va a coinvolgere l’invenduto di questa produzione massiva. Il ridotto avanzo di magazzino è oggi una delle carte che il lusso gioca per distinguersi dalle insegne del fast fashion, per le quali lo smaltimento comincia a essere un problema globale in termini di sostenibilità ambientale. Eppure, nonostante la Bbc abbia cercato di contattare 35 realtà operanti nel segmento di fascia alta per chiedere loro quale sia la pratica nel caso delle rimanenze, solo in sei si sono mostrate collaborative, mentre le altre o hanno detto di non poter fornire informazioni o non hanno proprio risposto.
L’indagine di Bbc è scattata in scia ai riflettori accesi nelle scorse settimane da Burberry, salito alla ribalta per aver dichiarato in bilancio, con massima trasparenza, di aver distrutto prodotti finiti per un valore di 28,6 milioni di sterline (oltre 32 milioni di euro) nell’ultimo esercizio. La società britannica ha anche spiegato di essere stata ‘costretta’ a distruggere ingenti quantitativi di prodotti invenduti per evitare di dover venderli a prezzi ribassati, pratica che avrebbe potuto minare l’allure di esclusività del marchio.
Il clamore sollevato da Burberry ha quindi rotto un primo muro riguardante la pratica di distruggere abiti perfettamente funzionanti. Ma il silenzio rimane ancora la prima risposta, nonostante la questione stia ormai diventando una delle principali problematiche che riguarda tanto il fast fashion quanto il lusso.